LETTURE SOTTO L’OMBRELLONE: “AVANTI, PARLA” di LIDIA RAVERA

PREMESSA
I romanzi di cui tratto qui vengono denominati “letture sotto l’ombrellone” esclusivamente perché questo è un blog estivo e “vacanziero”. Guardando la homepage, si nota facilmente che i commenti sono classificati come “chiacchiere sotto l’ombrellone” e i lettori che costituiscono la cosiddetta comunity vengono chiamati “vicini di ombrellone”. Quando ho deciso di dedicare qualche post del mio temporary blog alle letture, mi è venuto spontaneo classificare la categoria come “Letture sotto l’ombrellone” senza l’intenzione di sminuire o giudicare mediocre un romanzo nel momento in cui decido di portarmelo in spiaggia. Per sapere quali sono le caratteristiche che per me deve avere un libro da leggere in spiaggia, leggete QUI.
Grazie.

L’AUTRICE

Lidia Ravera, classe 1951, è una scrittrice e giornalista che si è fatta conoscere nel 1976 con la pubblicazione del romanzo Porci con le ali, alla cui stesura ha collaborato il neuropsichiatra Marco Lombardo Radice.

Ha pubblicato numerosi romanzi. Le seduzioni dell’inverno (Nottetempo, 2007), è stato finalista al Premio Strega 2008. Altri titoli importanti sono In fondo, a sinistra… (Melampo, 2005), Il dio zitto (Nottetempo, 2008), La guerra dei figli (Garzanti, 2010), Piccoli uomini. Maschi ritratti dell’Italia di oggi (Il Saggiatore, 2011). Con Bompiani Lidia Ravera ha pubblicato i più recenti: Piangi pure (2013) che è risultato vincitore assoluto al Premio Nazionale Letterario Pisa 2013 sezione Narrativa, La festa è finita (2014) e Gli scaduti (2015).
Del 2019 L’amore che dura, edito da Bompiani, la storia di un amore nato al tempo della rivoluzione femminista che in qualche modo si riallaccia al primo romanzo di successo Porci con le ali. Sempre per Bompiani nel 2023 ha pubblicato i romanzi Il terzo tempo e Avanti, parla.

Giovanna è una sessantenne che vive in una “casa sul fiume”, un appartamento nel centro di Roma con vista sul Tevere. Ha una lunga chioma bianca, è un’operaia in pensione e da molti anni conduce una vita solitaria in parte come fosse una sorta di autopunizione inflitta a causa di un errore di gioventù e in parte forse dovuta all’abitudine di nascondersi, di far perdere le proprie tracce. Quarant’anni prima aveva, infatti, partecipato alle contestazioni giovanili che animavano quella parte del Novecento, cadendo vittima della lotta armata in cui il movimento rivoluzionario l’aveva portata.

La sua vita anonima e appartata un bel giorno è stravolta dall’arrivo di una giovane e chiassosa famiglia che prende in affitto l’appartamento vicino al suo: Maria, Michele, Malcom e Malvina. Mamma, papà, figlio e figlia. Un ragazzino bilingue nato da una relazione di Michele con una donna americana e una bimba di 3 anni figlia di entrambi.

Pur ripromettendosi di non dare confidenza ai nuovi vicini di casa, Giovanna non può fare a meno di ascoltare, al di là della parete della camera da letto, le vivaci conversazioni tra Maria e Michele. Lui è un musicista e questa sua attività inevitabilmente attrae la donna, amante della musica. La vita da reclusa negli ultimi 20 anni era stata animata dalle sue grandi passioni: la musica e la lettura.

Ho letto milletrecentododici romanzi, leggo romanzi sono il mio respiro, perché è perfettamente commisurato alla mia natura distrarmi con vite che non sono la mia.

Leggo romanzi perché i romanzi sono come la musica, c’è una perfezione di proporzioni, un disegno nascosto, un’esattezza che mi mette pace.
[…]
I libri che leggi e rileggi sono l’archivio di ciò che resta.
Li accumuli dentro di te, a fondo perso.
Non leggi per essere migliore, per sentirti parte di qualcosa, per condividere un sentimento o approfondire un pensiero.
Leggi per perderti.

(Lidia Ravera, Avanti, parla!, edizione Bompiani, 2023, pag. 14 e 178)

Questa giovane famiglia piano piano entra nella sua vita, facendo riemergere antichi dolori e rimpianti, ma nello stesso tempo incoraggiandola a cambiare la sua routine quotidiana. Giovanna penetra all’interno di quelle relazioni familiari che non ha mai davvero provato, si lascia coinvolgere dall’entusiasmo dei vicini di casa, affezionandosi in particolare a Malvina. Questo legame le ricorda ciò cui ha rinunciato nella sua giovinezza fatta di fughe e solitudine, ciò per cui non si è mai sentita adeguata: la maternità.

Vorrebbe sottrarsi a questo vortice di emozioni ma non ne ha la forza. Ogni suo no rimane pensiero, non diventa mai azione. Quando le viene proposto di fare da babysitter a Malvina è troppo tardi per tornare indietro. Il no diventa sì e la trasforma in una “nonna” che inventa le favole, culla e accarezza la bimba per farla addormentare, la nutre, la veste, si prende cura di Malvina come mai avrebbe pensato di essere capace. Persino il soprannome che la famiglia le affibbia, Chiomavecchia, la fa sorridere. Un nomignolo ricco dell’affetto da cui non si è mai lasciata stringere.

La frequentazione con Michele e Maria la porta inevitabilmente a conoscere altri membri della famiglia. Trovarsi a tu per tu con Pietro Saverio, padre di Maria e donnaiolo incallito, nonostante i tre matrimoni, la disorienta. Quel suo modo di porsi, avvicinarsi, parlare con lei, facendole mille domande per scavare nel suo ignoto passato, crea in Giovanna una grande inquietudine. Lei che fino a quel momento aveva riservato la vicinanza fisica soltanto a Malvina, si ritrae. Non è pudore, è la sensazione del pericolo. Le sue difese vacillano ma ormai la strada intrapresa diventa vicolo cieco.

Poi tutto è andato in frantumi: hai incominciato a spiare la giovane coppia della porta accanto, hai giocato con la bambina, hai ascoltato il ragazzo. Malvina, Malcom. Michele, Maria.
Erano altrettanti focolai di infezione.
Non ti sei protetta.
Quando è arrivato Pietro Saverio eri già contaminata.
(ibidem, pag. 179)

Accoglie la proposta di Pietro Saverio di trascorrere nella sua casa sull’isola il mese di agosto, per prendersi cura della piccola. È un altro no che non sa pronunciare. Giovanna cade nella rete, come pensava di non poter mai fare. Mai più, se l’esperienza le ha insegnato qualcosa. Salvarsi dagli errori era stato l’obiettivo degli ultimi vent’anni. È bastato entrare nella vita degli altri per dimenticare la lezione.

Ho pensato: basta mollare la presa, staccarsi.
Mi sono sentita subito sollevata, al riparo dalla fatica della lotta, mentre la mia fragilità scompariva nell’abbraccio di una nuova onnipotenza. […]
L’uomo che mi aveva estratta dal mucchio, non perché gli piacevo ma per mostrarmi agli amici come un gustoso fuori programma in grado di rianimare un dibattito spento da decenni.
«L’ho riconosciuta subito.»
«Toglietemela dai piedi.»
Il dramma della vita ridotto a un pettegolezzo.
Una sera a cena. Bevendo vino bianco.
Prima di andare a dormire.

Forse per la prima nella sua vita Giovanna sa esattamente cosa fare. Sa cosa sia meglio fare. Per se stessa e per gli altri. Ha un piano per scomparire definitivamente dalla vita dei suoi vicini. Sarà la sua ultima fuga?

***

Il romanzo di Lidia Ravera è scritto in prima persona perché è dichiaratamente il diario della protagonista. Nonostante Giovanna affermi di non amare la scrittura, all’inizio ammette di essere caduta nella tentazione di lasciare scritto qualcosa di sé.

Mi sono chiesta: perché devi scrivere questo resoconto, questo racconto che nessuno ha chiesto, questo diario a ritroso?
Per spartirlo con chi? Perché non te ne rimani annidata nel tuo silenzio, come hai sempre fatto da quando sei sgusciata fuori dalla tua rumorosa giovinezza?
Il mio silenzio.
È proprio questo il punto. Non riesco a ritrovarlo. Da quando loro sono entrati nel mio rifugio come un soffio di tormenta da una finestra dimenticata aperta.
Il mio silenzio è andato a pezzi.
(ibidem, pag. 10)

L’utilizzo della prima persona si interrompe negli ultimi capitoli, in cui il focus si sposta su Malcom e la madre americana. È un cambio di rotta essenziale per arrivare all’epilogo.

La scrittura di Ravera è affascinante, nella sua essenziale brevità. Lo stile segmentato è la scelta migliore per riprodurre i pensieri che attraversano la mente di Giovanna mentre scrive. È un flusso di coscienza senza esserlo tecnicamente. Ed è un modo per catturare il lettore, per farlo immedesimare nella protagonista, senza mai permettergli di chiedersi cosa avrebbe fatto lui al posto di Giovanna. Perché Giovanna è protagonista assoluta, non lascia spazio ai pensieri degli altri, impone i suoi. La scrittura dell’autrice porta irrimediabilmente chi legge a sentirsi parte della storia senza rubare la scena alla donna.

La presenza discreta delle parti dialogiche interseca perfettamente la narrazione intima, tipica del diario, costituendone un necessario completamento.

Le parti descrittive, molto scarne e poco frequenti, lasciano il passo allo scavo interiore che, all’interno della narrazione, mette in luce sentimenti contrastanti.

La lettura di questo romanzo è gradevole e scorre veloce, allo stesso tempo impone momenti di pausa riflessiva in cui l’occhio è costretto a soffermarsi, rileggere e meditare su ciò che l’io narrante scrive e descrive.

Lidia Ravera, con il suo stile asciutto e frammentato, non delude perché sa mettere in luce la banalità del male, non poi così scontata, lasciando un barlume di speranza nel riallacciare la narrazione iniziale, connotata da tinte cupe, capovolgendola e trasformandola in qualcosa di inaspettatamente buono.

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